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    Brescia e la civiltà dell’acqua a cura di Marino Marini

    Pescatore ripara le reti

     

    La pesca è un’attività importante nel panorama economico della provincia bresciana. Si pensi che la superficie dei tre maggiori laghi bresciani (Garda, Iseo, Idro) occupa una estensione di circa 450 Kmq. A questo punto aggiungete i fiumi come l’Oglio, il Chiese, il Mella e innumerevoli torrenti e rogge e avrete un’immagine di quanto, la “civiltà dell’acqua”, sia importante per questa provincia.

    Nei due laghi principali, fino a pochi anni fa, era redditizio esercitare l’attività di pescatore. L’incuria dell’uomo, la rivoluzione industriale, il turismo di massa, hanno provocato, ognuno per la loro parte, l’abbandono quasi totale della pesca come professione. Antichissimi rinvenimenti ci fanno sapere che la pesca nei laghi bresciani è di origine lontanissima. Ami, fiocine, trappole, nasse e bertovelli, gli strumenti usati dai pescatori. In seguito, comparvero le reti che subirono una lunga evoluzione per operare in superficie appese a galleggianti o sul fondo. Di cotone colorate con il tannino delle bucce di castagne, fatte bollire in appositi pentoloni, costruite artigianalmente dai pescatori in ore di paziente lavoro.

    Fino a non molti anni fa si distinguevano nei tipi: a strascico, a catino per circondare il pesce, a tre ordini di maglie per fare la “sacca”. La rete volante di pesca era chiamata “rematt” e quella fissa di filo di seta “scarolina”. Naturalmente, data l’abbondanza della materia prima, il pesce, era l’alimento consumato dalle popolazioni locali come cibo quotidiano e preparato in mille modi. Anche la pesca era regolata da leggi severe: in special modo era proibita la cattura di alcuni pesci pregiati nel periodo della fregola, quando cioè i pesci depongono le uova nei bassi fondali. Abbiamo sicure notizie che già nel 1464 le autorità veneziane intervennero per salvaguardare la pesca. In particolare, il carpione (Salmo trutta carpio) era ritenuto il pesce di eccellenza superiore, per la bontà delle sue carni ed era esportato in tutta l’Europa del ‘500.

    Il carpione è presente solo nel lago di Garda; il tipo xentil è apprezzato per la particolare gentilezza e delicatezza e può pesare fino a 400 grammi, il tipo trèp, dall’omonima località del lago più profondo (346 m), è di dimensioni maggiori. Giuseppe Michiel, rettore veneto, così relazionava al Senato nel 1617:

    “Nelle Ville (dodici di Gargnano) che sono su la riva del lagho hanno copia di barche grandi et piccole, de quali si servono nel pescare ed in particolare di carpioni, essendo particolarmente il nervo di detta pescaggione nel mezo del golfo, per mezo di dette terre, in luoco detto Trep, sopra la qual pesca de’ carpioni vivono et si mantengono più che uomini cinquecento con le loro famiglie.”

    I pescatori, grazie all’esperienza accumulata nei secoli, sanno distinguere il Carpione nei seguenti tipi: “la stella” perché sul dorso porta delle macchie a stellina, le sue carni sono rosate ed è la specie commestibile più pregiata; “il moro” per via del colore bruno della livrea, carne rosa, squisito; “il liscio o argentato” carne chiara, meno soda, quindi non pregiato come gli altri. Oggi è quasi scomparso, si sta cercando di rimetterlo nel lago e Slow Food ha attivato un Presidio. Approfittiamo qui di spiegare che la carne rosa dei pesci e della trota cosiddetta salmonata, deriva esclusivamente dall’alimentazione dei pesci a base prevalente di crostacei, questo vale sia per i pesci “liberi” che per quelli in cattività, dove il cibo è fornito dall’uomo.

    “Restare senza carpioni è una disgrazia, la più grande dopo quella di perdere la
    coccarda nazionale. Ahimè, a che serve il lauro quando è scompagnato da carpioni!”

    così si lamentava nel 1828 il poeta tedesco Heinrich Heine: che intendesse alludere al metodo usato dai pescatori di esportare il carpione fritto, spruzzato di olio e avvolto in foglie di lauro? Non ci è dato sapere. Certo è che nel 1892 di carpioni ne furono pescati 200 quintali! Naturalmente non si pescavano solo carpioni. La fauna lacustre comprende anche: trota lacustre, iridea e fario; coregone lavarello; anguilla; luccio; persico reale, sole, trota; tinca; carpa; bottatrice; agone; alborella; cavedano e barbo. Oltre a qualche specie minore per un totale di trentasei specie. Non tutte le specie sono originarie, alcune sono state introdotte dall’uomo per incrementare la fauna (come il coregone), altre sono giunte dai fiumi e dai laghi collegati al Garda come il persico sole ed il pesce gatto. E, per dirla con Emilio Sereni, se gli italiani, ora conosciuti come “mangiamaccheroni” erano un tempo i “mangiafoglie”, i gardesani erano i “magna aole”.

    Anche sul lago d’Iseo le attività della pesca sono molto sviluppate. Ancora oggi esiste la tradizione di preparare in molti modi il prodotto pescato. In particolare, Clusane, oggi frazione di Iseo, ha sviluppato un discorso gastronomico attorno alla tinca, tanto da scrivere sui cartelli stradali, indicanti la frazione: Clusane paese della tinca al forno.

    Le barche, sul lago d’Iseo sono chiamate “naèt”, sospinte a forza di remi o da strette vele latine, erano di legno: alcune a fondo piatto e con due punte, altre con chiglia, prua e poppa. Naturalmente sul lago d’Iseo non si pescano solo tinche, ma anche coregoni, anguille, persico e un pesce particolare detto “bosa”, ma che in italiano fa bottatrice per qualcuno, e ghiozzo (o chiozzo) per qualcun altro. Ad esempio il Melchiori, che nel suo Vocabolario Bresciano-Italiano del 1817 lo definisce “piccolo pescatello senza lische e di capo grosso”. Questo pesce viene catturato ancora allo stadio di avannotto, attraverso la deposizione di fascine di legna collocate a circa un metro sotto il pelo dell’acqua, questi pesciolini daranno la famosa “torta di bosine” la versione bresciana dei “gianchetti” genovesi. Sul lago d’Iseo accanto alla pesca si sviluppano stabilimenti per la fabbricazione delle reti che serviranno non solo per i laghi bresciani, e saranno esportate in tutta Europa. Sul lago, data la presenza di uccelli acquatici, si esercita anche la caccia che fino al ‘92, era permessa con il capanno in movimento, cioè fissato sulla barca, oggi invece deve esservi solamente il capanno fisso.

    Le specie permesse sono in prevalenza folaghe e germani che qui trovano una interpretazione culinaria eccellente. A Monte Isola, stupenda località al centro del lago e vietata al traffico a motore, tra l’inverno e la primavera, sono essiccate al sole, su particolari graticci, le sardine di lago (gli agoni) e le alborelle (aole); uguale abitudine (per questi ultimi pesciolini) vi era sul lago di Garda, dove c’era una piccola industria detta delle “aole secche” che poi erano messe in salamoia per dare un po’ di condimento a una semplice pastasciutta.

    In “sisàm” è un antico metodo derivato dal “cisame de pesse” (l’incisamen latino parente del garum di Apicio), testimoniato fin dal XIV secolo. Si applica alle alborelle che vengono prima asciugate al sole o sui muretti, poi cotte sulla griglia, tagliuzzate e passate in padella con cipolle, vino bianco, aceto e poco zucchero, si cuocerà lungamente e poi finirà su fette di pane o di polenta.

    Oggi vi è una grande scarsità di questi pesci sia sul lago d’Iseo sia sul lago di Garda. Il motivo è la presenza di anatre e cigni che si nutrono delle alghe, che servono a questi pesciolini per depositare le loro uova: occorre intervenire per ritrovare il giusto equilibrio tra uccelli e pesci.

    La fantasia e l’arguzia dei semplici pescatori ha fatto nascere proverbi o modi di dire legati all’utilizzo del pesce lacustre.
    Nei fiöm grancc sè pesca i pès gròs; Bòse frite, pulintina, formai vècc e vì dè spina; Fiòca, fiòca le sardene va à la Ròca

    Ogni piatto aveva, naturalmente, la sua stagione, e allora: “tenca en camisa; lusso en pelissa”; “trota dè Nedal; anguila en carneàl”. “Lac da sardene” è quando il lago è liscio come l’olio e i branchi affiorano in superficie. Ancora un consiglio culinario: “co l’oio e co’l limù, èl cogo l’è padrù” a indicare che, per il pesce non serve altro. Infine, c’è la memoria dei “ronconi” o spinarelli (uno dei pochi pesci che fanno il nido intrecciato con vegetali e una speciale secrezione gelatinosa prodotta dai suoi reni) per una croccante frittura. Dei “ronconi” è rimasto purtroppo soltanto il ricordo in qualche vecchio pescatore. Un ricordo e un omaggio vanno a Vittorio Fusari che con i suoi “tagliolini di lago” omaggiava, a modo suo, la sua terra.

    Marino Marini


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