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    Il cuoco ieri e oggi: dai Greco-Romani al Novecento di Marino Marini

    Cucina rinascimentale

     

    Oggi trattiamo di una figura indispensabile per la nostra sopravvivenza: il cuoco (o la cuoca, cuciniera, resdora, come volete).
    Vi sono stati alcuni momenti nella storia nei quali questa figura subiva gli alti e bassi della situazione economica e cultural-religiosa del tempo.
    Indubbiamente è cuoco (usiamo il maschile per comodità, mentre ci rendiamo conto che, per millenni, ai fornelli ci stavano le donne) colui che sa preparare manicaretti deliziosi, ma anche chi si limita a scopiazzare ricette altrui… Chi non ha mangiato i famigerati risotti alle fragole o al kiwi, le pennette alla vodka, i tortellini alla panna, il carpaccio con grana e rucola!
    Ma veniamo alla Storia.
    Nei secoli si sono succeduti migliaia di cuochi famosi: nell’antica Roma troviamo iscrizioni “pubblicitarie” nel Foro, dove venivano affittati i cuochi più in voga: Clodius, Antiochus, cocus tuscus, Marcius Faustus libertus, cocus optimus. Pare che i migliori venissero dalla Magna Grecia, in particolar modo dalla Sicilia dove era stata organizzata una scuola di gastronomia. Chi non ricorda la figura del cuoco nel Satyricon, dove Trimalchione riprende severamente il cuoco che non aveva eviscerato il maiale. Lo stupore sarà nel vedere uscire dal corpo dell’animale colombe in volo seguite da salsicce e altre leccornie, a quei tempi un cuoco poteva costare come un cavallo.

    Nel Medioevo nascono i primi ricettari di cucina dominati dalle regole della Scuola Salernitana voluta da Federico II di Svevia (detto Stupor Mundi, ma odiato dal papa perché dimostrava di poter avere Gerusalemme senza fare la guerra). Si tratta di ricettari arabi, italiani, lusitani e poi francesi. Da questi libri si enuncia la tipologia di cucina più diffusa: a predominare sono le spezie, lo zucchero, il miele, naturalmente per chi se lo può permettere. È qui che incontriamo Maestro Martino Rubeis (o De Rossi) ticinese ma conosciuto per secoli come Maestro Martino da Como. Sarà lui ad ispirare il bibliotecario del Vaticano, Bartolomeo Sacchi detto il Platina, che con il suo trattato sui piaceri della tavola e la buona salute – De honesta voluptate et valetudine” –  inonderà le corti europee. Le ricette sono di Maestro Martino le prescrizioni dietetiche, igieniche, etiche, del Platina.

    Sarà però il Rinascimento a darci i primi grandi cuochi, uno sopra tutti: Bartolomeo Scappi. Famose le sue tavole sulle quali troviamo uno spaccato dell’organizzazione della cucina del suo tempo ma anche un sunto delle conoscenze agroalimentari di un grande cuoco. La descrizione dei pesci è illuminante per completezza: stagione, luogo, utilizzo. L’Opera (questo il titolo del suo famoso manuale) resterà nei secoli a ricordarci il fasto del Rinascimento e con Cristoforo da Messisbugo, servitore a Ferrara, (mentre lo Scappi stava dal papa), si raggiunge l’apice dell’organizzazione del banchetto.

    Con il Seicento ci si avvia al decadimento, le composizioni diventano più scenografiche, fino a diventare manieriste a barocche. Si punta più a mostrare lo sfarzo che non la qualità degli ingredienti. Bartolomeo Stefani alla corte dei Gonzaga ci spiega che: con buoni cavalli e buone borse, tutto puoi portare in tavola. A Parma, dai Farnese c’è il palermitano Carlo Nascia, presso la Serenissima il romano Cesare Evitascandalo. Le raccomandazioni dell’Accademia Agraria fanno breccia in Vincenzo Tanara  – bolognese –  che pubblica: “L’economia del cittadino in villa”. Verso la fine del secolo Antonio Latini con “Lo scalco alla moderna” traccia le linee della cucina del secolo successivo tentando una concorrenza alla cucina francese ormai dilagante.

    Nel Settecento un cuoco piemontese si vanta di essersi perfezionato a Parigi. Nel regno di Napoli i cuochi si chiamano con un chiaro gallicismo: monsù.
    Francesco Leonardi, romano, ma con esperienze europee di grande rilievo (Caterina II imperatrice di tutte le Russie), pubblica una ponderosa opera in sei volumi: “L’Apicio moderno”, una risposta alla nouvelle cuisine dei francesi. Da Napoli l’abate Vincenzo Corrado e il suo “Cuoco Galante” rispondono decisamente alle esigenze del nuovo che avanza, evidenziando le produzioni particolari del territorio partenopeo.

    L’Ottocento vede procedere, se pur timidamente, la cucina dei territori italiani (non delle regioni, che non esistono), di alcune città. I cuochi come Vincenzo Agnoletti alla corte di Maria Luigia, romano, attribuisce ad alcuni piatti parmigiani e piacentini le loro provenienze. A Napoli Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, al suo “Trattato di cucina teorico-pratica” unirà, verso la fine, ”Le quattro settimane secondo le stagioni della vera cucina casareccia in dialetto napoletano”. Questo secolo vedrà, timidamente, apparire ricettari locali, come quelli di Genova (Rossi e Ratto), di Milano (Luraschi) e innumerevoli cuochi locali anonimi, compreso quello bresciano del 1822. Sono i primi segnali del tentativo di riappropriarsi della cucina di casa, del proprio territorio. I termini usati sono ancora gallicismi, alla corte dei Savoia i menu sono in francese. Bisognerà aspettare l’Unità d’Italia e la svolta del secolo prima che si abbandoni la lingua francese per adottare quella italiana. I Savoia si rivolgeranno all’Accademia della Crusca di Firenze per le corrette traduzioni e ne usciranno delle belle!

    Siamo allo scadere del secolo, nel 1891 Pellegrino Artusi dà alle stampe “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, lo pubblicherà per vari anni a sue spese, le ricette iniziali sono 475, con la seconda edizione se ne aggiungeranno altre cento, per arrivare all’ultima e definitiva, del 1911, con 790 ricette. La cucina è regionale con così dovuta precisione e un linguaggio accattivante che ci fa capire che l’autore è un uomo di cultura, il libro, con gli occhi di oggi, mostra alcune carenze, non troveremo ad esempio, il pesto alla genovese e i pansotti, la pizza napoletana è un dolce, non vi è traccia di parmigiana di melanzane (che l’Artusi chiamava petonciani), non vi sono piatti siciliani o sardi, né la tiella pugliese ecc.

    Le ragioni le ha spiegate bene Alberto Capatti, i trasporti del tempo non erano agevoli, Artusi viaggiava perlopiù in treno o in carrozza. Prima della morte dell’autore, nel 1911, uscirà un libro del dottor Vittorio Agnetti denominato La cucina delle specialità regionali. Contiene ricette Piemontesi, Liguri, Lombarde, Venete, Emiliane, Romagnole, Toscane, Romane, Napoletane, Siciliane e Sardegnole. Siamo nel 1909, l’Agnetti non usa certo il linguaggio forbito del banchiere di Forlimpopoli, le sue sono solo ricette. Il suo grande merito è però di aver rimediato alle carenze de “La Scienza in cucina” inserendo il pesto genovese e la pizza napoletana, rivalutando la fonduta piemontese che l’Artusi aveva sdegnosamente relegato a piatto di rimedio, la caponata e il baccalà che Artusi aveva segnato come indigesto e olezzoso.

    Prima che vi addormentiate ci fermiamo qui, siamo ai primi anni del ‘900 e l’alta cucina italiana è alle porte.

    Marino Marini


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