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    La cultura del cibo: un valore fondamentale da riscoprire e diffondere

    Dieta Mediterranea

     

    Iniziamo subito a porci una domanda: il cibo è un diritto o è solo un fatto casuale che l’uomo mangi per sopravvivere?

    Gli antropologi lo sanno da sempre: il cibo descrive l’uomo e il suo modo di vivere. Nelle società primitive studiare cosa mangiassero queste popolazioni indica il livello culturale raggiunto. Ma fuori dalle accademie, lontano dai riflettori delle scelte alimentari, la cultura del cibo desta poco interesse.

    È di qualche anno fa la frase di un economista italiano “con la cultura non si mangia”. La cultura legata al cibo invece ci ha sempre permesso di mangiare, ci ha indicato cos’era buono e cosa no. La conoscenza di  qual era la stagione di un dato alimento e il suo utilizzo in cucina, ci permetteva di esercitare delle scelte per salvaguardare la salute. Ma questo modo di fare, questa cultura del cibo non sollevava entusiasmo fra coloro che si esercitavano a propagandare la cosiddetta “rivoluzione verde”. Con lo slogan “cibo per tutti” si apprestavano a smembrare il mondo contadino esistente, la sua civiltà e quindi la sua cultura.

    Il Patto Internazionale delle Nazioni Unite su diritti economici, sociali e culturali all’articolo 11 recita: “è diritto di ogni individuo avere un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario ed alloggio adeguati nonché il miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita”. Ebbene sono dovuti passare 40 anni perché la FAO dichiarasse che l’attuazione del diritto a un’alimentazione adeguata richiede, tra le altre cose: “la disponibilità di cibo libero da sostanze avverse e culturalmente accettabile.

    In quella situazione culturale il cibo orientato al profitto non avrebbe trovato terreno facile, ma un paio di cose sono successe. La prima furono le scelte “sdraiate” sull’industria, sulla siderurgia in un paese che avrebbe dovuto fare del cibo e del turismo le sue punte di diamante. Andate a vedere dove hanno posizionato le grandi industrie siderurgiche: in Liguria, in Campania, in Puglia, le perle della nostra tradizione agricola. Poi venne il trionfo dell’industria alimentare che non aveva bisogno di un consumatore “colto” che poteva dire “questi pomodori te li mangi tu”. Aveva bisogno di un consumatore, distratto, pigro e credulone. Se non c’era bisognava inventarlo, costruirlo con una pubblicità che creava bisogni, che alimentava sensi di colpa per la propria inadeguatezza a cogliere le novità. La cultura alimentare che possedevamo si è andata erodendo, finché non ci siamo accorti dell’inganno: truffe, scandali alimentari, patologie, ingiustizie.

    Allora, con fatica, abbiamo cercato di riprenderci ciò che ci avevano tolto: la cultura. Abbiamo studiato, abbiamo incontrato agricoltori, cuochi, allevatori e abbiamo così capito che noi eravamo proprio come le popolazioni studiate dagli antropologi. Questo analfabetismo alimentare continua tutt’oggi e fa leva sulle nuove generazioni, quelle più fragili e soggette alle immagini di un cibo finto, infarcito di musica moderna ma vuoto di cultura. Tocca a noi riportare la conoscenza dentro casa, dentro scuola.

    Dobbiamo esercitare, verso il cibo, una parolina semplice come cura. Cura è una parolina modesta, può significare rimedio ma se le affianchiamo un verbo ausiliare, ecco che esplode in tutta la sua forza: “aver cura”. La distinzione tra la qualità e la non qualità, tra la sostenibilità e la non sostenibilità è proprio quella: se la produzione, la distribuzione e il consumo del cibo fanno parte di un sistema che ha cura di tutti gli esseri viventi, delle risorse del pianeta, dei diritti di chi c’è e di chi arriverà, o se invece questa cura non c’è.

    Il passaggio è questo, dalla inconsapevolezza di una forte cultura alimentare, all’inizio della consapevolezza di una cultura alimentare in via di devastazione. In mezzo c’è stata anche l’azione deliberata di tanti intellettuali, di tanti politici che hanno guardato per decenni con sufficienza, quando non con scherno, alle questioni relative all’agricoltura e al cibo: quella roba lì nemmeno per loro era degna di essere chiamata cultura.

    Ora finalmente è chiaro, non per tutti certo, che la cultura è anche roba da mangiare. E senza cultura si può arrivare a mangiare così male da rovinare la salute propria e quella del pianeta. Un famoso slogan anarchico recita: “se il tuo pensiero è debole significa che hai mangiato male!”

    Ma come esercitarla questa cultura? In democrazia esiste lo strumento della delega, nel caso del cibo: se non posso produrlo io, delego qualcuno che lo faccia per me. Nelle città e nei grossi agglomerati produrre cibo è impossibile. Se i produttori sono vicini a noi le informazioni ce le possiamo procurare facilmente, per esempio possiamo andare a vedere come lavorano o incontrarli in un mercato contadino. Se invece si tratta di prodotti che arrivano da più lontano, l’etichetta diventa fondamentale. Altrettanto importante sarà la stampa di settore, se fa correttamente il suo mestiere – che è quello, importantissimo, della divulgazione – e non si confonde con gli uffici stampa delle azienda. Perché la pubblicità non è quello che ci serve per riconfermare la delega, proprio perché è uno strumento di comunicazione che sta in mano a chi vogliamo controllare.

    Quindi ora ci resta l’etichetta, strumento di democrazia che, per citare Pericle, favorisce: “i molti invece dei pochi” . Ma le etichette come sono fatte oggi sembra che tutelino più il produttore che il consumatore. Secondo il ragionamento fatto in precedenza sulla qualità e la sostenibilità, il consumatore dovrebbe sapere come sono stati trattati gli animali che hanno prodotto il latte o la carne che sto per comprare, cosa hanno mangiato, di quale razza sono, se è una razza del luogo in cui sono stati allevati o no, e dove sta questo luogo, insomma da dove viene il latte di quel formaggio, quali trattamenti ha subito, chi sono le persone che si sono occupate della trasformazione del latte in formaggio, quale tipo di relazione hanno con quel lavoro, e via di questo passo. Un’Etichetta Narrante, come la chiama Slow Food che non è solo uno strumento di comunicazione, ma anche di promozione (di cibo e territorio) e di educazione alimentare. Questa è quella che noi chiamiamo cultura del cibo che sommata alla storia ci fornisce gli strumenti adatti a capire ciò che arriva in tavola.

    Letture consigliate:
    Breviario di resistenza alimentare di Michael Pollan, BUR
    Mangia come parli di Cinzia Scaffidi, Slow Food

    Marino Marini


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