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    Motti e proverbi della penuria alimentare, ovvero il “mangiarcattivo”

    Proverbi dialettali bresciani

     

    Proverbi dialettali bresciani. Di questi tempi potrebbe essere utile ripercorrere il nostro cammino alimentare, quello che nel passato era la quotidianità che oggi abbiamo dimenticato, ma che, per i più giovani, sarà un utile esercizio di riappropriazione di ciò che è l’essere umano e per ripensare a un futuro di consapevolezza.

    Se ai nostri tempi il diffuso benessere presente nel mondo occidentale rende il cibo comunemente disponibile (oggi è tutto grasso che cola), non va dimenticato che in un passato non lontanissimo ad essere in voga era il “Menù di casa Pochètti: lü ‘l lèss töcc i dé, lé la soprèssa e ai gnari quater gnòc” (lèss=lesso,legge, soprèssa=salame,stira, gnòc=gnocchi,scapaccioni).

    Per molti il desinare era una penitenza, come ricorda la frase: “Se ulif fa penitènsa con mé…” (se volete gradire). Certo, la situazione era diversa tra città e campagna: spesso era soprattutto la città, e in essa naturalmente i poveri prima di tutti, a soffrire di carenza di materia prima.

    In campagna, invece, “èl paesà, o fé o pàia, ergóta ‘l maia”. Per invitare alla “Diaeta Parca” (perché “sac vöt nó ‘l sta ‘n pé”, ma “sac pié nó ‘l sé piéga”) si escogitavano mille trucchi, come quello di disegnare un diavolo nel fondo della zuppiera: poteva capitare, allora, di “troà èl diaol sol fónd dè la basia” come monito dell’aver mangiato troppo, per cui si va diritti all’inferno.

    Un altro motto recita: “golusità dè bóca, pintìt tè tóca”, e ancora: “a osèl engùrd ghè sciòpa ‘l gós”. Il pane bianco era spesso un miraggio. Chi ne consumava usava produrlo con farine povere come la segale, ma si utilizzavano anche miglio, orzo, panìco, farro e perfino farina di fave e ceci ma anche patate, “èl pà del poarì èl gà trè gröste”.

    Per la polenta, importante era avere il tòcio, o almeno qualche accompagnamento, quali potevano essere il latte, gli avanzi di formaggio, l’aringa appesa ad un filo in mezzo al tavolo perché durasse di più (polenta e picà sö). Se, specialmente la sera, ci fosse stata la minestra, questa poteva essere stata fatta con brodo di fagioli o con quello del cotechino (“i sé lamènta dèl bröt gras”).

    La qualità del cibo, insomma, lasciava parecchio a desiderare. D’altronde: “chèl che l’è mia bù, èl va nèla masöla”. Per risollevarsi da queste cene “luculliane” si sostava all’osteria. Se non fosse stata proprio “a l’osteria dèl triilì, che no ghè gna pà gna vì”, si sarebbe dovuto, comunque, fare attenzione perché era risaputo che “èl vì fì nó ‘l ghè al licinsì”, e che “i ostér i è töcc èmbruiù, i mèsc-ia èl vì có l’acqua e lur i béf chèl bù”. Qualche volta, certo, in occasioni importanti come i matrimoni, ci si permetteva di esagerare. In queste feste a prevalere era la gioia del desco, e si aveva così la rara opportunità di mettere in pratica una norma di dietetica popolare come: “Mangià come ‘n bò, beèr come ‘n àsen e pisà come ‘n cà, sè manté l’òm sà”.

    #andràTuttoBene!

    Marino Marini


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