Le tradizioni del Natale Bresciano a cura di Marino Marini

Le tradizioni del Natale Bresciano

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È Natale, un Natale che invita alla speranza, a guardare ad un futuro abbastanza vicino, nel quale poter riprendere tutte le nostre abitudini. Nel frattempo possiamo recuperare l’intimità familiare che questa ricorrenza suggerisce. C’è la voglia di stare insieme, di raccogliersi per recuperare il vero senso di questa festa che, lo si voglia o meno, ha il sapore dell’uguaglianza.

Noi però, vi vogliamo raccontare delle abitudini , non solo bresciane, tipiche delle festività, quelle di cui forse hanno memoria i nostri nonni, abitudini che si stanno perdendo, o che oggi sopravvivono sotto un’altra forma.

Fino a pochi decenni fa, infatti, erano diffuse alcune consuetudini condivise con altre popolazioni montanare, o contadine. La cucina, ad esempio, era il luogo di aggregazione, assieme alla stalla, per il caldo emanato dal camino o dalla stufa (nella stalla invece erano gli animali con il loro corpo a scaldare l’ambiente).

Avvicinandosi il Natale si seguivano delle tradizioni, come quella di accendere un ceppo che doveva durare dodici giorni (dalla notte di Natale fino all’Epifania). Carbone e cenere del fuoco ritenuto benedetto venivano usati, ci racconta Gabriele Rosa nel 1870: “qual talismano contro le procelle”.
Oltre al ceppo, prima di andare a letto, si disponevano attorno al focolare due sedie perché, passando nella notte, la Madonna e S. Giuseppe potessero sedersi, riposarsi e scaldarsi. Assieme al ceppo (di solito di rovere, èl sòch dè rùer), si bruciavano rami e fronde di ginepro e di lauro il cui aroma si riteneva preservasse dalla corruzione ed era emblema di immortalità. Al suono della mezzanotte tutti uscivano per strada per ascoltare e cantare “le pastorelle” e per osservare i grandi fuochi accesi sulle alture. Fino agli anni Cinquanta, a Pezzaze e altrove venivano sparati mortaretti, altri scaricavano i fucili.

La Vigilia era tradizionalmente di magro, dopo l’Avvento che aveva visto anche giorni di digiuno. Nella Bassa era usanza consumare l’anguilla, in Città erano d’obbligo l’anguilla e i pesciolini marinati, la cotognata o la mostarda di Cremona. In Valcamonica la Vigilia era assoluto digiuno ma l’antivigilia era riservata alla gnochéra una scorpacciata di gnocchi, perché:
Chi nó disüna la Vigilia dè Nedal, nó conós né bé, né mal.

Il Natale era, ed è ancora, fra le solennità più sentite dal popolo bresciano. Particolarmente frequentata la Novena, accompagnata da zampognari o pìa baghècc, con melodie ripetute all’infinito (piva, piva, l’olio d’oliva!). Molto diffuso dalle notti precedenti il Natale fino all’Epifania il “Canto della stella”, con un particolare rito che variava da paese a paese, ma che sostanzialmente consisteva nel percorrere, da parte di un gruppo di canterini, le vie del paese suonando e cantando nenie natalizie, portando sopra una pertica una stella illuminata da candele.

Negli ultimi giorni della Novena, specie nella pianura, vigeva l’usanza del caidù (probabilmente dal francese “cadeau” = dono) seondo la quale, chi appena era in grado, costruiva nel cortile o sull’aia una catasta di pezzi di legna, alla quale potevano attingere i poveri per procurarsi legna per l’inverno, senza essere osservati. Dall’abitudine di formare queste cataste, nasce l’uso (o l’accettazione) dell’albero di Natale, diffuso dapprima nel Nord Europa, approvato da Martin Lutero perché l’abete, sempreverde, era presagio di primavera, di nuova vita, così come il vischio e l’agrifoglio sono simboli di vita.

Particolare significato aveva in Valtrompia l’acqua attinta a mezzanotte, ora in cui era stato lavato il Bambino Gesù, dopo la sua nascita. A Natale qualcuno mette via un pane. Lo avvolge in un panno bianco e lo conserva. A Sant’Antonio, dopo aver portato le bestie sul sagrato della chiesa, farà benedire quel pane per darlo in pasto alla vacca partoriente e proteggere il vitellino nascituro. Alcune previsioni del tempo del giorno di Natale: se il cielo fosse stato sereno i raccolti sarebbero stati buoni, in caso contrario si preannunciavano sciagure e malattie.
A Nedàl èl dé èl sè slonga èn pas del gal.

E adesso a tavola: ecco cosa si mangia.

La Vigilia:
Pesciolini e Anguilla marinati, sottolio e sottaceti casalinghi, varù (vaironi) èn consa.
Chi volesse preparare una cena:
Casonsèi de puina (di ricotta), i malfacc, evitate in questo periodo, di chiamarli strangolapreti.
Tinca di Clusane al forno con polenta, oppure spiedini di anguilla con verdure e polenta tiragna.
Insalata del Preòst (Prevosto) per farsi perdonare qualche misfatto.
Niente dolce sarebbe troppo e trasformerebbe l’attesa in un giorno di festa troppo grande.

Il Santo Natale:
Salumi nostrani di vario genere, salame, pancetta, coppa, òs de stòmèch (osso dello stomaco un salume particolare di Lonato).
Minestra di Mariconde o Casoncelli di carne al burro e salvia ma anche Tagliatelle con il sugo d’anatra. Gallina con l’empiöm (ripieno) o una tacchinella ripiena di castagne o l’anatra con castagne e prugne se non l’avete usata per le tagliatelle. Verdure bollite miste. Mostarda mista di Cremona.
Marù dè la nef. Persicata. Marronata. Torrone.
A merenda si può servire una fetta di Bossolà bresciano con brodo di giuggiole o salsa inglese o zabaione.

Ancora qualche consiglio: cercate, il più possibile, di acquistare prodotti locali i nostri vini e i nostri meravigliosi formaggi. Niente di più buono, in tutti i sensi, sarà veder portare in tavola un assortimento di formaggi bresciani, ne facciamo per tutti i gusti: Bagòss, Silter, Nostrano Valtrompia, Grana Padano, Fatulì, Casolet, Formaggelle delle Valli, Gorgonzola, Tombea, Sabbio, Conca, Salva Cremasco, Robiole, Caprini, Ricotte con Burro di malga e Mascarpone, tutti accompagnati dai vini della Franciacorta e di Cellatica, del lago di Garda e della Lugana, di Botticino, della Valcamonica, di Capriano del Colle…

Chi teme per la dieta si ricordi che non s’ingrassa da Natale a Capodanno ma da Capodanno a Natale.
El mangià no ‘l tè fa mal, se tè set bù dè misüral.
Buone feste a tutti!

Marino Marini


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