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    Come mangiavamo, dal dopoguerra a ieri

    Alimentari di una volta

     

    Il mio primo pensiero fu di precipitarmi sul cuoco!” così Edmondo De Amicis descrive il suo incontro con la cucina marocchina.
    Era una carenza deamicisiana non comprendere la cucina magrebina, il cuoco era così incapace o De Amicis aveva un palato che rifiutava altri gusti, era sofferente di fobie alimentari?

    Non ci è dato sapere. Eppure, in questi ultimi 70 anni i cambiamenti gastro-abitudinari hanno contrassegnato la nostra cucina e le nostre consuetudini. Il ricordo delle sanzioni, della borsa nera, del: “no alla pastasciutta!” di Marinetti, dei surrogati, dopo tutto questo, si sperava che si potesse solo migliorare.

    Il desiderio principale è il pollo arrosto della domenica o il coniglio con le patate.
    Da pochi anni si conoscono abitudini alimentari prima conosciute solo localmente, poi l’incrocio di popolazioni dovute al forzato servizio militare, alle immigrazioni dal sud al nord e dall’est all’ovest hanno allargato le conoscenze. Il riscaldamento delle case di città si faceva con la cucina economica a legna che riforniva anche di acqua calda. In ghiacciaia si conservavano i cibi in estate (d’inverno bastava metterli sul davanzale della finestra) una volta ogni tanto passava l’uomo del ghiaccio che te ne vendeva un pezzo. La spesa si faceva quasi quotidianamente, il latte si prendeva sfuso in latteria con le uova, controllate alla luce della lampada per vedere se c’era il pulcino. Il caffè era un mistero: miscela Leone, Fago e, poco, caffè buono.

    Per difenderti dalle mosche la mamma usava il Flit o la carta moschicida. I liquori si facevano in casa con certe boccettine di Bertolini o con i prugnoli, le ciliegie, le noci. Con l’arrivo degli americani i bambini scoprono il “ciuingam”, all’oratorio si gioca a cicòti o a figurine, alla Pace c’erano anche gli Shangai e le pulci, le ragazze giocavano a “mondo”. In tavola c’è spesso la minestra, qualche volta il riso e qualche altra gli gnocchi. Il dolce non c’è quasi mai se non un pezzo di mattonella comperata a peso in latteria, la stessa che darà poi origine alla Nutella, quando un Ferrero si accorgerà che sciolta è più buona che solida.

    All’osteria si trova il vino sfuso di Botticino, della Riviera o di Trani (da qui il nome di tante osterie), sul banco l’oste ti propone uova sode o pane biscottato, cose che ingozzano, così berrai ancora. Si gioca a carte o alla morra, in estate, fuori, alle bocce; c’è un cartello minaccioso: “la persona civile non sputa per terra e non bestemmia!”

    Poi cambia tutto: arriva il frigorifero, la televisione, se non ce l’hai vai al bar. Le trasmissioni più famose le puoi vedere anche al cinema prima del film, spariscono i cinegiornali Luce, al Sociale ci puoi stare quattro ore, due per la rivista e due per il film. Poi arriva Carosello, è l’inizio di una trasformazione forzata verso il consumismo. A Sanremo cantano: “fummo felici uniti e ci han divisi” (si tratta della divisione di Trieste), “lo sai che i papaveri son alti, alti, alti e tu sei piccolina che cosa ci puoi far” oppure un po’ più avanti: “chi non lavora, non fa l’amore”. L’industria alimentare non si è ancora consolidata, perché “La Cucina Italiana” di quegli anni raccomanda alle donne di lavare il pollo con il sapone, di lavare il riso e le carni in generale.

    Le donne iniziano a lavorare fuori casa e si riduce così il tempo di cucinare. Dopo l’apertura dell’Autostrada del Sole si aprono gli Autogrill (21 dicembre 1959) per il loro lancio si usano anche personaggi popolari come Mario Soldati che propone dei veri e propri menù con ricette italiane come “Il pollo nostrano al fuoco di faggio”. Negli anni Sessanta, in pieno boom economico,  prende avvio la cultura della pausa pranzo fuori casa e del consumo di pasti veloci, favoriti anche dai nuovi elettrodomestici (freezer, forno…) e dall’influenza del modello americano con l’avvicinamento a cracker, pommes chips e altre goduriose specialità industriali come la famosa bevanda scura. Alle novelle spose si regala “Il cucchiaio d’argento”.

    La disponibilità economica si riflette nelle vacanze estive, i figli dei lavoratori andranno nelle colonie estive aziendali, i borghesi in vacanza al mare o in montagna, la via intermedia passa per i campeggi. Questi spostamenti fanno conoscere piatti allora sconosciuti, come gli spaghetti alle vongole, il pesto, la parmigiana, la pasta alla Norma, i cannoli, le lasagne, i tortellini. Così che il signor Fini viene chiamato in America a mostrare come si fanno i tortellini, naturalmente non in brodo ma inondati di panna.

    Buitoni apre un ristorante dove si vende solo pasta (la sua) distribuita sopra una specie di nastro dove il cliente sceglie il condimento desiderato (avete presente Chaplin in Tempi Moderni?). A Roma nel ristorante di Alfredo di Lelio si servono ai divi della Dolce Vita le famose fettuccine all’Alfredo al triplo burro, due attori omaggeranno Alfredo con due posate d’oro! A Milano imperversa un famoso piatto meneghino: penne alla vodka; Marchesi inventa il raviolo aperto (abbiamo impiegato secoli per imparare a chiuderlo) e il riso oro e zafferano.

    Risale al 1981 l’apertura del primo ristorante fast food italiano a Milano, in Piazza San Babila. Inizia l’assalto alla ristorazione, si chiudono le osterie, i trani e le latterie, non più “alla page”. In Francia appare la Nouvelle Cuisine che destruttura i piatti, li alleggerisce, riduce le porzioni, perché ormai la fame non c’è più, e trasforma il cuoco in un assemblatore di alimenti diversi.

    Negli anni Cinquanta arriva anche il Carpaccio, un’invenzione dell’Harry’s Bar di Venezia di Giuseppe Cipriani. Da quelle fette di carne cruda condita di salsa nascono le varie interpretazioni, la più diffusa è con la rucola e il grana, condita con un filo d’olio, sale e pepe. Ma poi saranno chiamati “carpaccio” tutto ciò che si taglia sottile dal pesce alla pesca. A proposito di rucola, quest’erbetta spontanea dell’Italia centrale aveva per nome ruchetta e con la rucola sotto plastica di oggi non c’entra niente. Le gastronomie si rifanno a Fauchon di Parigi, a Brescia Agosti, a Milano Peck.

    I cibi diventano sempre più industriali, sempre più freddi (congelati e surgelati), ma costano anche sempre meno e nessuno si chiede perché. Chi coltiva questi prodotti se quasi tutti lavorano in fabbrica? La spesa alimentare si assottiglia sempre di più, mangiare fuori casa è ormai un’abitudine e a sostegno del mondo agricolo si aprono gli agriturismi. Poi arrivano le guide, la prima, nel 1956, fu la Michelin, poi Veronelli e L’Espresso, poi il Gambero Rosso e tante altre. Tutte a indicare la miglior ristorazione italiana che, dagli anni ’70 in poi, fece salti da gigante: da Gualtiero Marchesi a Fulvio Pierangelini, da Guido Alciati ad Alfonso Iaccarino, da Nadia Santini a Pina Bellini, da Mirella Cantarelli a Luisa Valazza.

    In TV Mario Soldati ti racconta i cibi genuini della valle del Po, Luigi Veronelli e Ave Ninchi battibeccano sull’esecuzione delle ricette. Queste sono realtà che si incontrano nei vari territori e modi di intendere il cibo, la cucina diffusa in tante parti d’Italia.
    Ma il cibo è ancora guardato con sufficienza da tante parti, spesso ignorato appositamente, il vino è ancora additato con severità come se si fosse ancora ai tempi di Filippo Turati e i “ciucialiter”.

    Nel 1982 nasce la rivista “La gola” che raccoglie intellettuali, storici, filosofi a discutere di cibo e vita materiale. La situazione nella società civile sta sfuggendo di mano, si diffondono i fast food, le merendine industriali e il vino diventa al metanolo e uccide 20 persone. Questa “distrazione di massa” verrà sottolineata da un’associazione che si chiamerà prima Arcigola e poi Slow Food. Verranno esaminati i menù delle Feste popolari, dei circoli e delle mense e si scoprirà che si è perso il rapporto tra cibo e coltivatore-allevatore. Anche questa associazione produrrà una sua guida, la chiamerà “Osterie d’Italia” per indicare la strada da percorrere nella ristorazione.

    Le grandi fabbriche del cibo hanno preso il sopravvento, gli allevamenti sono diventati intensivi, i polli crescono in gabbia, i maiali e le mucche non vedono un pezzo di terra in cui brucare o scavare. I bambini pensano che il pollo non abbia mai avuto le penne e un pezzo di mela verde sia un dentifricio. All’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, Corrado Barberis, il presidente, organizza un censimento dei prodotti tipici nazionali dai formaggi ai salumi, dalle paste alle erbe, si scopre così un patrimonio immenso di prodotti e di artigianalità straordinari. Sarà la base su cui far nascere le Doc e le Dop e finalmente la strada della qualità è segnata. Nel 2004 a Torino si svolge “Terra Madre” un incontro mondiale delle comunità del cibo che si ripete ogni due anni. E speriamo che questa sia la svolta buona!

    L’appuntamento con il Terra Madre – Salone del Gusto del 2020 è fissato dal’8 al 12 ottobre a Torino (Lingotto Fiere)

    Marino Marini


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