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    Le guide sono morte? Evviva le guide!

    “Il pubblico non ha mai mangiato tanto al ristorante e i cuochi non sono mai stati tanto ricettivi. Eppure le vendite dei volumi che recensiscono i migliori indirizzi sono calate. Una riflessione sul ruolo di «vox populi» e «gastrotainment» in un mondo in cui la critica è, e deve essere, ancora fondamentale.

    La critica musicale è morta, la critica teatrale è morta e anche la critica gastronomica non sta tanto bene. Una domanda serpeggia tra gli addetti: le guide ai ristoranti sono a un passo dall’esalare l’ultimo respiro tartufato? I segnali ci sono. Prima di tutto il crollo verticale di vendite negli ultimi vent’anni: per tutti i maggiori titoli, prima si viaggiava sulle decine, oggi sulle poche migliaia di copie. Il che non è compensato né dall’aumento dei ricavi dalla pubblicità né dalle edizioni digitali. Precipitano gli incassi, ma non i costi, e una guida ai ristoranti è il libro più dispendioso che c’è (e vive solo un anno, meno di un polpo). Facile fare i conti: le guide nostrane recensiscono circa 2.000 ristoranti; simulando un conto medio da 100 euro, si sommano 200 mila euro. E i conti si devono pagare. Questo è uno specifico della critica gastronomica: un recensore d’opera (i pochi che sopravvivono) si sente libero di stroncare una prima alla quale è stato «accreditato», un recensore di ristoranti non di fare lo stesso in un tristellato. Così è, se vi pare. Poi ci sono le schede, che recensori semi-volontari (con l’eccezione di Michelin, che ha ispettori dipendenti, stipendiati, rimborsati) si vedono retribuire in media 40 euro. A questo siamo abituati: il critico gastronomico in Italia è un hobby, non un lavoro, Rossa a parte. E fa altri 80 mila euro. Mettiamoci direzione, redazione, stampa, insomma una guida costa facilmente mezzo milione di euro. E nella migliore delle ipotesi ne ricava — tra libreria, edicola, accordi commerciali, digitale — una frazione. Un sistema del genere non può reggere.

    Il caso Espresso
    Infatti. La Guida ai ristoranti de L’Espresso fondata nel 1978 è appena stata ceduta, con il settimanale che le dà il nome, dal gruppo GEDI all’imprenditore campano Danilo Iervolino, già socio del Gambero Rosso e fondatore dell’Università Telematica Pegasus. La presentazione della nuova edizione, il 10 maggio a Firenze, sarà thrilling: il settantacinquenne direttore Enzo Vizzari, che era in procinto d’andare in pensione, si fermerà il tempo necessario per dare continuità, ma del doman non v’è certezza. Osterie d’Italia ha da poco cambiato board, in un’idea di rinnovamento: alla sua guida accanto a Eugenio Signoroni la giovane Francesca Mastrovito. Ma perché nessuno acquista più le guide?

    Tra algoritmi e grastrotainment
    Non sono certo venuti meno i compiti che dovrebbero assolvere. A cosa serve la critica (e non solo quella gastronomica)? Sostanzialmente a fare due cose: a dare al pubblico gli strumenti per separare il grano dalla crusca, i locali buoni da quelli no; e a creare un’elaborazione culturale che aiuti il settore ad aumentare la propria consapevolezza, dunque a crescere. Il pubblico non ha mai mangiato tanto al ristorante e i cuochi non sono mai stati ricettivi come ora: dunque perché le guide sono moribonde? Perché qualcuno ha preso il loro posto. In primis, alla vox dei professionisti s’è sostituita quella populi addomesticata dagli algoritmi. In secundis, lo spazio dell’informazione è stato occupato dalla comunicazione e dal gastrotainment (vedi alle voci MasterChef, Chef’s Table, 50 Best…). Oggi un cliente ha a disposizione il voto demoscopico di milioni di utenti, il quale ha numerosi vantaggi: è capillare, usabile e, soprattutto, gratis. Per quel che riguarda la consapevolezza dei cuochi, in tempi di consociativismo, cuochi e critici non sono più antagonisti ma coprotagonisti in un mondo che ha azzerato il conflitto. Dunque ci si deve onestamente interrogare: questo mondo nuovo — in cui i ristoranti vengono valutati dalle persone comuni e raccontati da chi vi collabora — risponde ugualmente ai bisogni di cui si diceva? Io credo: meno del vecchio mondo. Il giudizio popolare conta ma ha gli stessi limiti del televoto di Sanremo. E la mancanza di interlocutori giusti ma severi crea figli viziati. A differenza dall’informazione, la comunicazione non distingue le cose che sono buone da quelle che non lo sono, e questo produce ristoranti fake, costruiti in laboratorio in cui è tutto giusto ma senza gusto. Penso che la critica e le guide siano fondamentali. E non sono il solo. Lo pensano i clienti, che sono stanchi di perdere ore a leggere tra le righe dei commenti di Google. Lo pensano tanti cuochi che rimpiangono i critici veri, che a differenza degli influencer non dicono sempre «genio», ma anche dei «no», soprattutto spiegando «perché». Se le guide gastronomiche servono, come le si salva?

    Il modello Michelin
    In un mondo che non vuole più la carta ma non paga il digitale, il modello Michelin sembra l’unico plausibile, e infatti resiste da 122 anni in Francia e da 65 in Italia: un editore impuro che usa la guida come strumento di marketing. E spende un milione di euro (a occhio) in un progetto vettore del marchio. La Michelin si è adattata ai tempi: nel 2019, invece che combatterlo, s’è alleata con il competitor, cioè ha stipulato un accordo con il sistema di prenotazioni di The Fork e il sito di recensioni Tripadvisor; inoltre pochi giorni fa ha annunciato che le novità in guida verranno pubblicate su App e sito prima che sull’edizione di carta. Questo abbraccio con prenotazioni e digit costituisce di certo l’esperimento più interessante nel fare incontrare la critica vecchia e quella nuova, ma pone grandi interrogativi sul futuro: se The Fork — che è il vero generatore di ricavi — aumenterà la propria influenza, come contemplerà il fatto di recensire ristoranti con cui è in affari? Ciò detto, la Rossa ha trovato una strada, altre ce ne possono essere. Per dire: e se un’azienda automobilistica fondasse una guida e mettesse le recensioni anche sui navigatori delle proprie macchine?”

    (Luca Iaccarino)


    Il modello Brescia a Tavola
    Brescia a Tavola, il circuito gastronomico attivo dal 2012 nella valorizzazione e promozione della ristorazione bresciana di qualità, sembra aver ha trovato “la quadra” tra costi aziendali – giornalisti, blogger, degustatori, gestore di contenuti web e social e segreteria – e redditività del progetto.

    Il progetto “gustoso” coinvolge solo i locali meritevoli (mix positivo cucina-servizio-ambiente) che vengono incontrati e provati senza anonimato.  “Ci siamo accorti che sia i plus che i minus emergono anche nelle degustazioni concordate”. Un progetto un pò unico nel suo genere perchè miscela gli strumenti web – mantenuti sempre aggiornati  (le informazioni vecchie sono il vero tallone d’achille del web) -, social compresi di messaggistica e newsletter con strumenti tradizionali come “La Guida Bresciaatavola” anche rielaborata in Miniguide di zona – sempre cartacee – e nella versione Pdf per farne fruire nel modo più diffuso possibile.

    Considerando un costo visita di 40€ a cui vanno aggiunti almeno 25.000€/anno tra giornalisti, redattori e social m.m. e 20.000€ tra grafico e carta stampata, il nostro punto di pareggio si attesta attorno ai 60/70.000€

    Riusciamo a realizzare questi ricavi attraverso  la vendita di spazi sponsor (guida) e la sottoscrizione di una quota associativa di 365€ (anno 2023), l’acquisto di Guide con copertina personalizzata (a partire da 30 che sono perfette per un regalo ai clienti più affezionati) e servizi di promozione multicanale pagati questi ultimi in cambio merce (coupon) che Brescia a Tavola venderà a prezzo leggermente scontato ai propri soci a cui chiederà di redigere una recensione sulla degustazione. Una ricetta magica? No anni di ricerca per trovare un mix che accontenti tutti: ristoratori, consultatori e noi.

     

     

    Massimo Marcocchi
    Direttore
    Brescia a Tavola


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